Dei cinquantuno profughi arrivati in Italia con il corridoio umanitario dalla Associazione Papa Giovanni XXIII, grazie al Governo italiano e alle Nazioni Unite, sono una trentina quelli arrivati a Rimini, nella struttura della Comunità che noi conosciamo come Albergo sociale. Il loto volto sereno vale più di tutto, più delle parole, delle ideologie, delle convenienze, dei conti. Sono facce che raccontano storie di soprusi e violenze difficili da spiegare a parole.
Vengono da Etiopia, Eritrea, Camerun, Somalia, Sudan, parlano decine di lingue e dialetti diversi, nessuno conosciuto da noi europei. Ci sono e non possiamo fare finta che non esistono. Se sono qui è perchè, come nella sua tradizione, la Papa Giovanni XXIII ha chiesto a Nazioni Unite e Governo di occuparsi di quelli che non voleva nessuno, degli ultimi tra gli ultimi, donne, bimbi e disabili in fuga da guerre fratricide e sanguinarie.
Oggi sono a Rimini e non spetta solo a questi splendidi volontari, che non smetterò mai di ringraziare, ma a tutti i riminesi prendersene cura. Il Comune farà la sua parte, e anche l'Ausl, con cui sono già in contatto per garantire la necessaria assistenza sociale e sanitaria.
L'auspicio è che non si tratti di uno spot, ma di un progetto strutturale che si integri, e non sostituisca, agli altri progetti coordinati dagli Enti Locali, come gli Sprar. Oggi è un momento di festa e non voglio parlare di altro, però lo ribadisco; il decreto sicurezza rischia di mandare in strada tanti migranti già ospitati nelle strutture del riminese. A Rimini abbiamo dimostrato che una integrazione che vada oltre all'accoglienza è possibile.
Gli Sprar funzionano, per questo abbiamo da tempo fatto richiesta per un ampliamento del progetto, in accordo con le altre Istituzioni e il Prefetto, con cui collaboriamo tutti i gironi.
Bene i corridoi umanitari, bene l'accoglienza, ma per una reale integrazione c'è bisogno del coinvolgimento attivo e diretto anche degli Enti locali.
Non è facile, ma è possibile, lo dobbiamo a persone come loro, che chiedono solo di poter vivere e crescere i figli in pace, lontano dalle guerre e, se possibile, anche dalle terribili ferite, fisiche e psicologiche, che si portano dietro.