Si tratta di una tematica ancora attuale nel mondo del calcio che con la storia di Arpad Weisz ha aperto una interessante riflessione sui temi della lotta al razzismo nello sport. L’ allenatore ebreo ungherese, considerato all'epoca tra i più vincenti d’Europa, che tra il 1935 e il 1938, fece vincere al Bologna Calcio due scudetti e qualche anno più tardi, nel 1944, fu vittima insieme a tutta la sua famiglia degli orrori della Shoah, morendo nel 1944, in un campo lavoro di Auschwitz.
“Si tratta di un personaggio unico - ha sottolineato L’Assessore
Gian Luca Brasini - sia per la vicenda sportiva sia per l’oblio in cui
lui e la sua famiglia si sono ritrovati. Tutto questo nonostante i successi conseguiti grazie a delle capacità uniche di innovazione che Wiesz aveva portato in quegli anni nei metodi di allenamento. Credo che la straordinaria ricerca fatta da Matteo Marani, per ricucire una storia che nessuno ricordava, sia un gesto di
grande generosità. Una storia che non c’era più perché era caduta
nell’oblio, un filo interrotto che adesso è stato riallacciato
restituendo dignità e memoria ad un’intera famiglia vittima di una follia che non dobbiamo dimenticare. Arpad Weisz era stato premiato dall’allora primo ministro Benito Mussolini per i successi sportivi e
l’anno successivo cacciato da nostro paese a cause delle assurde leggi razziali emanate dallo stesso governo nel 1938 .
Ora come in quegli anni lo sport è quotidianamente vittima di atteggiamenti discriminatori e razzisti verso chiunque sia diverso, per disabilità, condizioni sociali e provenienza. Lo sport invece è l’ambito dove chiunque sia coinvolto attivamente, in particolare i più piccoli, non percepisce queste presunte differenze. Ma voglio continuare a credere che il movimento sportivo, nella maggioranza dei casi, abbia i fondamentali solidi e che sia capace di produrre gli anticorpi per reagire alla stupidità di pochi. Se mi si chiedesse cosa mi preoccupa maggiormente riguardo al contesto attuale risponderei che non è tanto lo sparuto gruppo di cretini che fa i cori razzisti allo stadio, ma piuttosto le scene quotidiane di genitori che inveiscono, nei campi di periferia, contro gli arbitri o che complottano verso allenatori che non valorizzano sufficientemente i propri figli, ovviamente presunti campioni.
E’ solo creando modelli positivi e isolando queste sacche di assenza di valori che possiamo pensare che lo sport possa essere immune da qualsiasi forma di discriminazione"