Rimini. Foto di settembre. 2013

Al secondo appuntamento annuale Rimini. Foto di Settembre si presenta con sei importanti esposizioni. Cinque personali e una rassegna dedicata alle ricche raccolte fotografiche comunali.
Data di pubblicazione

Inaugurazione mostre sabato 31 agosto 2013, ore 18,00 (a partire dalla Far | fabbrica arte rimini, Galleria Comunale d'arte contemporanea, Piazza Cavour, Rimini).

  •  "Negli interstizi del tempo", a cura di Nadia Bizzocchi e Oriana Maroni con allestimento coordinato da Anna Maria Bernucci. Museo della Città / via Tonini 1

L’archivio fotografico della Biblioteca Gambalunga si mette in mostra, una banca di immagini imponente, oltre un milione di foto su Rimini e la sua provincia, raccolte in centocinquant’anni di storia.
Un percorso inconsueto nella labirintica memoria visiva cittadina, narrato in trentadue “racconti” fotografici che ripercorrono la formazione dell’archivio.

  • Sanna Kannisto "Close observer" . FAR / piazza Cavour

Dalla vocazione di studiosa del mondo naturale la fotografa finlandese estrae una poetica fatta di immagini tassonomiche che si innestano al racconto della professione di scienziato. Il set fotografico crea uno spicchio astratto di mondo, sospeso entro la lussureggiante natura tropicale, determinando un corto circuito concettuale tra "dentro" e "fuori".
Mostra in collaborazione con la Galleria Metronom di Modena

  • Michele Buda "Tricks and falls" . Galleria dell'Immagine / via Gambalunga 27

L'isolamento talentuoso e atletico di una generazione si esprime emblematicamente entro un'arena di cemento armato. Una tavoletta di legno con quattro ruote. Scarpette, jeans e maglietta, ma forse anche una musica in cuffia che non è dato sentire. Gesti danzati e ombre di voli disegnano immagini ipnotiche da questa essenzialità autistica.

  • Luigi Poiaghi "Ritratto per assenza" Museo della Città / via Tonini 1

Un angolo di casa, polveroso e disadorno. Un muro e un tavolo con due oggetti che innescano una metafisica discreta, non ostentata. Nella luminescenza grigia, che sembra mettere il tempo entro una soluzione conservativa, la limpidezza dello sguardo e l'opacità delle cose trovano accordo.

  • Marco Spaggiari "Polaroid" Museo della Città / via Tonini 1

È stata popolare per decenni una tecnologia nata per l'uso istantaneo dell'immagine, Marco Spaggiari ne ribalta le proprietà imponendo un rallenty al ritmo di visione, una sedimentazione temporale che ne densifica gli effetti. La compressione dell'istante, applicata al paesaggio emiliano, impassibile solo all'apparenza, produce quasi uno scarto sentimentale.

  • Giovanni Battista Maria Falcone "Paesaggi musicali. 1990-2013"  Palazzo del Podestà / piazza Cavour

Alcuni protagonisti del mondo musicale contemporaneo, sinfonico e concertistico, sono stati ritratti ai margini della scena. Il passaggio di grandi musicisti e direttori di orchestra dalla ribalta palermitana negli ultimi tre decenni è divenuto tema per un artista solitamente impegnato alla narrazione del paesaggio.
Mostra in collaborazione con Sagra Musicale Malatestiana

CONTRIBUTI E APPROFONDIMENTI

  • Negli interstizi del tempo.  L’archivio fotografico della Biblioteca Gambalunga


L’archivio fotografico della Biblioteca Gambalunga, una banca di immagini imponente, oltre un milione di foto su Rimini e la sua provincia, raccolte in centocinquant’anni di storia, si mette in mostra. L’esposizione, intitolata Negli interstizi del tempo, curata da Nadia Bizzocchi e Oriana Maroni (l’una curatrice, l’altra responsabile dell’Archivio fotografico Gambalunghiano), allestimento coordinato da Anna Maria Bernucci.

Un percorso inconsueto nella labirintica memoria visiva cittadina, narrato in trentadue “racconti” fotografici  che ripercorrono la formazione dell’archivio. Tre foto di Piero Delucca, fra cui l’immagine rappresentativa della mostra, rinviano alle suggestioni e visioni delle fotografie in archivio, ai sortilegi del tempo divenuto memoria, ai teatri magici delle storie “messe da parte”. Che fanno dei documenti un archivio.

Narrazioni attraverso cui è possibile intravedere la nascita della fotografia a Rimini, quando le immagini impresse dalla luce cambiarono la percezione del mondo e del tempo. Racconti di  fotografi famosi giunti dalle capitali per documentare i capolavori dell’arte riminese, ma anche di oscuri ambulanti attratti dalla nascente industria dei bagni, di aristocratici dilettanti e borghesi professionisti riminesi, che dalla nuova arte trassero diletto o guadagno.

Dapprima si trattò solo di un “mélange” di documenti ammucchiati “qua e là alla rinfusa”, raccolti con il contributo dei nascenti istituti deputati alla tutela, per documentare e studiare il patrimonio artistico, archeologico e bibliografico.
Poi si aggiunsero le fotografie provenienti da archivi privati, quelle depositate dagli uffici pubblici che avevano promosso il turismo o narrato le vicende della politica cittadina. Fino alle più recenti acquisizioni di fotocronaca, che hanno dilatato le capacità informative dell’archivio, oggi consultabile via web sull’Opac della Biblioteca, e documentato l’immagine della città fino ai giorni nostri.

Il visitatore potrà immergersi nelle magie illusorie della fotografia, cercare le rappresentazioni della realtà, farsi sorprendere dalla scoperta dei volti scomparsi della città. Potrà osservare teste di divinità romane, bronzetti, e insieme le foto “ritrovate” degli affreschi trecenteschi “liberati” dal terremoto del 1916;  soffermarsi sui lavori di isolamento dell’Arco d’Augusto e osservare le citazioni imperiali delle narrazioni fasciste, ma anche le fotografie di denuncia degli anni Settanta; le immagini di Rimini scomparsa nella voragine della guerra, seguite da quelle della “città da salvare” dai picconi della ricostruzione. Le foto per la réclame del nostro mare,  prima e dopo la scoperta del sole, quelle scattate sul fronte della grande guerra per portare i saluti dei soldati; le foto scambiate come pegno d’amore, i ritratti a testimonianza di un ruolo sociale. Immagini scattate per ricordare e dimenticare. Dicono di autori e committenti. Raccontano la città e i suoi cittadini.
Oriana Maroni

Il cervello umano è un gigantesco archivio di immagini, ordinato da una catalogazione aperta a innumerevoli percorsi di ricerca tematica. Ogni immagine raccolta ha connessioni temporali che si intersecano a quelle spaziali. Le tracce sensoriali di quell'evento esistenziale, correlate tra loro, moltiplicano costellazioni semantiche per cui uno stesso ricordo può essere richiamato da sollecitazioni occasionali o volontarie. Tali percorsi solo talvolta sono lineari, mentre più spesso si presentano intricati come un volo di mosca, transitando da varie stazioni di ricordi. Incalcolabili e individuali sono le postazioni dalle quali si può accedere allo sterminato archivio e c'è altrettanto fascino nei processi che permettono la memoria così come in quelli che la impediscono.
Nel suo ruolo di magazzino il cervello si direbbe soggetto ad un'estetica geografica. Restituisce la forma di una metropoli brulicante di attività e di spostamenti, nella quale il cursore mnemonico si sposta da un palazzo di ricordi a una piazza sensoriale; da un labirinto di viuzze in cui solo il sogno ha accesso, fino alle zone desertiche del pensiero estivo.

Da sempre utilizziamo anche memorie esterne al nostro cervello. Gli oggetti di cui ci circondiamo sono piste di atterraggio sulle quali i ricordi possono contare; i volti delle persone care, con la loro riconoscibilità, ci rassicurano offrendo punti di riferimento al viaggio della vita.
L'invenzione della fotografia ha surrogato, moltiplicato e reso condivisibile alcuni ricordi individuali. La trasformazione sintetica di un momento vissuto in un oggetto bidimensionale ha permesso l'archiviazione fisica di una componente fondamentale del ricordo e la forma di quella catalogazione esterna ha incontrato processi di trasformazione tuttora non arrestati. Soluzioni chimiche e procedimenti fisici si sono avvicendati ed hanno trovato supporto su rettangoli di vetro, ovali di ceramica; su ritagli di carta e cartone, fino all'arrivo del materiale plastico e alle luminescenze del computer.
Ma se un cervello ricorda una città, può una città tentare di svolgere almeno alcune tra le funzioni di un cervello?
Ogni biblioteca pubblica, sin dal suo nascere, assolve al ruolo di banca mnemonica collettiva ed è parso naturale affidare a certe istituzioni municipali anche il compito di conservare e catalogare le immagini di una città e dei suoi abitanti, attraverso le generazioni di fotografi e di cineasti; di collezionisti e amatori, che hanno donato o ceduto il loro archivio.
Molte opportunità e altrettanti quesiti pone questa scelta, che incontra ostacoli specifici assieme a necessita di sguardi lungimiranti.
I numerosi e importanti fondi fotografici che la Biblioteca Gambalunga ha raccolto in questi decenni costituiscono una miniera di storia riminese ancora in gran parte da scavare, un patrimonio articolato e fertile che offrirà racconti infiniti e aperti a molte discipline della conoscenza.
Pur essendo finalizzato alla raccolta e allo studio delle immagini un archivio fotografico si presenta, nella quasi totalitá dei casi, come un insieme di tante scaffalerie, come una teoria di armadi, entro stanze stracolme di scatole, di faldoni e cartolari. Contenitori di balsa e compensato a forma di gigantesco libro, con lunghe e agevoli fibbie di cotone chiaro si alternano a buste di plastica cha mostrano da un lato un rinforzo bucherellato, predisposto per i registri ad anelli. Qua e lá, sui bordi dei ripiani, sbucano sempre foglietti bianchi o post it gialli che contengono gli appunti della filologia archivistica. Non mancano schedari ingialliti dal tempo o contenitori colorati di diapositive, che qualche anno fa prendevano il posto dei vecchi album rivestiti di finto cuoio o di velluto rosso. Il tutto rincalzato da una coperta di polvere, che puó risultare variabile, ma mai assente.
Ai piú, tutto questo, potrá risultare anonimo e amministrativo, ma per chi ne ha avuto frequenza finisce col caricarsi di un valore estetico particolare e inconfondibile.
Chi é stato nel gabinetto fotografico di una Soprintendenza o nella Biblioteca dell'Istituto Germanico fiorentino a sfogliare carpette intestate a pittori del Seicento o ha fatto ricerche sulle distruzioni della guerra, presso un Archivio di Stato; chi ha consultato gli stati d'anime di un vescovado o il libro dei battezzati di una pieve troverá familiare e suggestivo anche questo accumulo di scatole dai colori pastello, quei negativi su lastre di vetro bordate di carta nera, queste etichette sdrucite. Forse qualcuno potrá perfino apprezzare i segni delle graffette lasciate su una stampa, l'impronta sbiancata di una puntina da disegno o le diverse sfumature sul margine di un mazzetto di fogli che per decenni é rimasto esposto alla luce.
Anche questo, in fondo, é fotografia.
Massimo Pulini


  • Dall'Archivio alla Metafotografia. per Sanna Kannisto e Michele Buda


Nel 1978 John Szarkowsky intitolò una importante mostra “Mirrors and windows” ad indicare che la Fotografia poteva essere intesa come strumento di indagine e/o di riflessione per la sua capacità di farsi sguardo esterno e al tempo stesso sguardo interno.
Non sempre nella prassi questa distinzione appare così chiara e definita.
Per alcune mostre dell'edizione 2013 di Rimini.Foto di settembre, ci si potrebbe chiedere ad esempio: che intenzioni hanno Sanna Kannisto e Michele Buda?
Forse quelle di descrivere con estrema precisione il mondo naturale con un intento particolare verso la botanica e l'etologia, la prima, e il mondo performativo-giovane dello skate il secondo? Direi proprio di no a dispetto delle apparenze.
Il metatesto, la narrazione per immagini dei loro lavori va al di là di una facile ed appagante apparenza per diventare riflessione partecipata, pensiero narrante sulla Fotografia stessa, la sua sintassi, la sua evocatività.
Se negli anni Ottanta e Novanta la Fotografia Italiana ed Europea aveva cominciato a cogliere la lezione di “precisione” delle nuovissime topografie con le quali ci avevano sorpreso i “topofotografi” americani che indagavano il territorio, quella lezione oggi non si è completamente persa anche se si è aggiunta complessità e smarrita ingenuità di sguardo. La stratificazione narrativa determinata da un pensiero di minor candore produce raffinate sovrapposizioni di senso.
Qualcosa era cambiato e qualcosa doveva cambiare. L. Baltz stesso ammetteva lucidamente, nei primi anni Novanta, di aver mutato le modalità di lavoro in quanto a suo avviso la superficie del mondo era stata ampiamente descritta e non c'era molto più da vedere.
Le immagini della Kannisto e di Buda sembrano accogliere il diktat della società dello spettacolo producendone a loro volta, per non correre il rischio dell'invisibilità, cercano tuttavia di elaborare un pensiero consapevole in cui le cose non sono mai solo così come appaiono.
Tendono a confermare l'idea del fotografo come artista e teorico. In completa autonomia. Ribadiscono che solo l'artista (e non il critico) può elaborare un pensiero veramente profondo sulla fotografia contemporanea o sull'arte in genere.
Piero Delucca


  • Nell'atelier, “Cantos” di tenebre per Luigi Poiaghi

Del tempo è passato. Il tempo non passa più. A rischio dell’opera. Poi eccoci soli. I nostri sensi ingannati dallo scarso contrasto, si divertono coi sottili colori dell’ombra. Tutt’ intorno a noi dei muri allestiscono una scena quasi monocroma. Lì compaiono gli oggetti di un sacrificio intimo. Lì penetrano soltanto immagini, icone o ex voto. Più nessuna presenza? Disorientati, cerchiamo i nostri riferimenti, le bottiglie e qualche zoccolo geometrizzante evocano Giorgio Morandi, ma lontano dai suoi colori aciduli. La tavolozza del fotografo ha la sottigliezza delle albe e dei tramonti, la dolcezza della pelle sfiorata da una carezza appena abbozzata.

Il tremolio di luce a stento controllato su un oggetto quotidiano ci rammenta con più acuità la serie di Ciné-tableau Ezra Pound di Dieter Appelt. L’artista tedesco, recandosi sugli ultimi luoghi di vita del poeta dei Cantos, stratifica le sue luci che scolpiscono pochissimi oggetti necessari alla creazione come alla sopravvivenza. Luigi Poiaghi opera con la stessa fragile economia sui luoghi della sua opera. I due artisti condividono una stessa sensibilità nelle stampe fotografiche, il primo  in bianco e nero, l’altro in teneri chiaroscuri di grigio e beige.

Per contrastare il silenzio di queste immagini, immagino di sentire risuonare delle leçons de ténèbres, quelle di Marc Antoine Charpentier, piuttosto che quelle di François Couperin. L’alternanza di immagini chiare dove gli oggetti sono esaltati e di scatti più scuri dove brulica la memoria, sembrano replicare il dialogo musicale di lezioni e responsorii nella pièce prebarocca. Questi “ritratto per  assenza” conservano però un’ atmosfera molto meno morbosa.

Ritorniamo sui nostri passi: sopra una porta chiusa d’ombra, ci accoglie un orologio a muro.Poi, due quadretti collegati da un legaccio provvisorio, denotano un’ascendenza agreste. Un po’ più in là un ritratto d’identità al femminile tenta il dialogo con un altro filo piuttosto spinato. Questi muri segnati da legacci approssimativi, li abbiamo già visti ornare le case povere del Sudafrica negli interni di Roger Ballen. Ma questi spazi abitati attraversati da un tratto che segna, traccia o ferisce, esistevano già nella serie di “anime” che Luigi Poiaghi aveva realizzato in tecnica mista nella metà degli anni 80. Questa “terra bruciata d’ombra”, come titolava una delle sue opere, ora trova nelle stampe fotografiche una versione interiorizzata.

E giacché decisamente questa dimora è abitata da presenze che rivisitano la storia dell’arte, un semplice abito appeso contro il muro evoca la parure di feltro di Joseph Beuys. Ma dei responsorii più quotidiani lasciano intravedere, nello scuro, dei corpi portatori di un po’ di luce. Una testa scolpita risveglia narciso sul piano di uno specchio. Altre trasparenze deformano dei ritratti che annegano nel ricordo.

La nostra solitudine è decisamente popolata, certamente è questo luogo improbabile che diviene opera nell’obiettivo del pittore, il quale ha scommesso sulla fotografia come accumulatore di assenze. Questo luogo non è altro che un immenso cenotafio, celebra un corpo senza ospitarlo più. L’atelier si spoglia per farsi feretro da cerimonia delle opere scomparse.

Christian Gattinoni

(...) Lavorando il bianco e nero, Poiaghi coglie della notte sfumature di tonalità in cui la luce si fa sorgiva e diffusa, ancora ammaliata dal buio. Sono sue componenti il silenzio, l’assenza, l’oscurità, l’immoto. In questo presente-passato denso, complesso eppure leggero, si avverte la meraviglia della Luce, il suo sorgere dal buio, trasformando i frammenti in presenze vibranti. La luce evoca nei barlumi delle sue evanescenze un mondo prezioso e misterioso. Là dove il buio si fa più profondo, la luce emerge come miraggio ed evocazione.(...)

Rosita Lappi

  • Tratto da De Dulcedine in infinitum per Giovanni Battista Maria Falcone

[…] Gli artisti non redimeranno il mondo, tuttavia, quali esseri umani che non sempre conciliano passione e leggi della ragione, ma che li conducono ad un vivace rapporto, possono offrire il modello di un nesso tra il bisogno d’espressione e il senso della vita. Nell’ultimo capitolo Falcone presenta i ritratti, risalenti alcuni a parecchi anni fa, di persone a lui care o le cui posizioni artistiche possiedono per lui un particolare significato. Le figure più anziane comunicano un senso di calma e serenità, come appartenessero già ad un’altra epoca. Le più giovani, invece, fragili e dalle espressioni interrogative, pensose, non a caso presentate in foto a colori, attraversano ancora una fase aperta della loro definizione. Tutte le figure appaiono nel quadro come fossero illuminate da qualcosa, eccetto solo il fotografo, ritratto sotto forma di presenza ombrosa in una tenue riflessione su una superficie in vetro.

Temi centrali per Falcone sono il tempo storico e la luce, quest’ultima intesa quale fattore determinante della cultura. Il suo punto di vista artistico è definito da una fondamentale riserva nei confronti della linea di sviluppo della civilizzazione umana le cui conseguenze negative egli riconosce nelle strutture di complessi residenziali così come nel paesaggio in generale. Nella perdita di una memoria culturale Falcone intravede le cause di una mancanza di cura nell’uso delle risorse e di una crisi di senso della modernità. Il suo procedimento artistico nutre una stretta relazione con l’elaborazione di messaggi attraverso la combinazione di unità segnico-linguistiche. Le sue fotografie possono intendersi dunque anche quali unità di un discorso poetico.

Seppure anche in questo libro la sua visione della storia umana sembri piuttosto cupa, brucia in essa l’ideale di una più alta capacità di riflessione sul rapporto con le cose della vita. L’ideale di un agire responsabile e, in ultima analisi, di un’armonia quale superamento dialettico degli opposti. L’idea di un’età dell’oro. Quale artista che si concepisce come un monito, egli non addita vie d’uscita, ma certo indica delle possibilità e da ultimo anche quella di superare l’angoscia e riacquistare un senso, una percezione sensibile.

Adreas Krase



Note biografiche

Sanna Kannisto, nata a Hämeenlinna (Finlandia) nel 1974, vive e lavora a Helsinki. Il suo lavoro è stato esposto in alcune delle più prestigiose istituzioni artistiche internazionali: Centre Pompidou, 2009; Museum of Modern Art, New York, 2008; Maison Européenne de la Photographie, Parigi, 2008; Fotomuseum, Winterthur, 2007; Finnish Museum of Photography, Helsinki, 2007. Recentemente le hanno dedicato mostre personali la Aperture Gallery, New York (2011), e il Sørlandets Kunstmuseum, Kristiansand, Norvegia.

Michele Buda è nato nel 1967 a Ravenna, vive e lavora a Cesena. Ha studiato Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo all’Università di Bologna. E’ docente di Fotografia presso l’Accademia di Belle Arti di Ravenna. Ha iniziato ad occuparsi di fotografia all’inizio degli anni Novanta partecipando a diverse campagne fotografiche pubbliche. Numerose sono anche le pubblicazioni a cui lavora, legate in particolare a progetti su commissione relativi ad indagini sul territorio. Sue fotografie fanno parte delle collezioni di Linea di Confine per la fotografia contemporanea di Reggio Emilia, dell’IBC della Regione Emilia-Romagna, del Canadian Centre for Architecture di Montreal e del Fotomuseum Winterthur in Svizzera.

Luigi Poiaghi, nasce a Corsico, (Milano), nel 1947. Si è diplomato in Pittura all'Accademia di Brera. Cresce nell'ambiente culturale ed espositivo milanese. Nel 1981 si trasferisce a Verucchio. Numerose le mostre in Italia e all'estero. Negli ultimi anni si dedicato con grandi energie alla pratica della Fotografia. "Ritratto per assenza", Pazzini Editore, Verucchio 2012, è il suo primo libro fotografico.

Marco Spaggiari è nato a Correggio (RE), il 26 Aprile 1974; vive e lavora a Fabbrico (RE). Si è diplomato in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna nel 2009 con una tesi dal titolo “Un diario ceduo – Un percorso fra convenzionalità e spregiudicatezza della forma da Delacroix a Cézanne”, e nel 2011 con una tesi dal titolo “L’atto fotografico, coscienza del mondo”. Attualmente sta lavorando con materiali fotografici Polaroid e "post" Polaroid.

Giovanni Battista Maria Falcone, architetto-fotografo, si occupa da tempo, attraverso la sua ricerca fotografica, delle problematiche relative alla natura del paesaggio e alle sue trasformazioni. E', tra i fotografi siciliani, uno dei più apprezzati dalla critica. Fra i volumi pubblicati: Sole di Sicilia, Electa, Milano 1993; Sicilia le rughe del tempo, Electa, Milano 1996; Dalla Sicilia a Malta, Electa, Milano 1997; Palermo 2010 Luna di Sicilia, E. M. Falcone Editore, Palermo 2010.

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Ultimo aggiornamento

15/05/2023, 17:05