Adesso ho davanti quello sguardo che, a mio avviso, sintetizza bene la vita, le opere e l’approccio di Fabbri alla vita e alle relazioni tra persone. La curiosità personale, l’insaziabile volontà del sapere, la consapevolezza che il cammino della conoscenza non ha mai capolinea, che si esplicavano attraverso un lavoro intellettuale meticoloso, in dialogo permanente con le più alte esperienze culturali ma lasciando sempre aperta la porta al nuovo. Partire dalla provincia, da Rimini, per diventare riferimento di un mondo e del mondo in un campo come quello della semiotica che scava nei segni, nella parola, nelle immagini che cercano (spesso invano) di afferrare le cose e i fatti. In questo senso, il tragitto esistenziale di Paolo Fabbri ha molti punti di contatto con quello dell’adorato Federico Fellini, anch’esso riminese curioso e schivo, dalla prorompente curiosità tradotta in arte cinematografica sublime e indimenticabile. Rimini perde oggi qualcosa di infinitamente grande.
Il Fabbri che abbiamo tutti conosciuto, che ho personalmente conosciuto, era una persona libera e non conformista. Il suo stesso mestiere lo portava ad afferrare il significato delle cose oltre la superficie di quanto accade. Il suo è stato uno sguardo differente per decodificare una società sempre più apparentemente complessa ma nello stesso tempo regredita nei linguaggi e dunque nelle relazioni. In una recente intervista, confidava le sue sensazioni sulla contemporaneità: “Siamo la cultura del superlativo, dell’esternazione e dell’iperbole enfatica che provoca emozione. Ai tempi di Pasolini e Fellini parole come “ragazzì” e “paparazzì” sono entrate nel lessico francese, poi si è imposta la “paninoteca”, oggi dall’Italia penetrano in Francia i nostri superlativi in –issimo. E poi c’è anche un abuso di prefissi del tipo: ultra-, stra-, mega-, iper-, maxi-, macro-, meta-”. Il giudizio, dietro all’asetticità dell’analisi, era negativo. Dentro questo perimetro ha continuato fino all’ultimo, nonostante le condizioni fisiche sempre più precarie, a esercitare il ruolo di intellettuale a tutto tondo, e cioè portatore di una visione non convenzionale del presente e della realtà, pur scomoda e inascoltata alla massa che fosse.
Umberto Eco, suo grande amico e compagno di viaggio intellettuale, lo aveva inserito tra i personaggi del celebre romanzo ‘Il nome della Rosa’. Paolo da Rimini, fondatore della biblioteca, e con il soprannome di «Abbas Agraphicus» per le letture voraci e per la parsimonia nello scrivere. Un divertissement, un gioco che metteva in luce la confidenza tra i due grandi semiologi, intellettualmente onnivori e intellettualmente consapevoli che la cultura potesse avere un ruolo fondamentale nella vita delle persone se non blindata nelle alte guglie e nelle torri d’avorio.
Questo aveva portato Paolo Fabbri ad assumere compiti e ruoli importanti nella sua Rimini, in particolar modo in ordine alla valorizzazione e alla promozione delle opere e del genio di Federico Fellini, da lui considerato alla stregua di Picasso e Kafka. Ruoli in stagioni difficili e perfino tormentate, Rimini non pareva credere a sufficienza nella necessità di fare dell’eredità artistica di Fellini non solo un luogo da visitare passivamente ma una vera e propria architrave per rigenerare la città e rigenerarsi attraverso uno sguardo creativo sul mondo e sulla vita. Fabbri non si è mai risparmiato, pur nelle condizioni organizzative e logistiche più difficili, e si è messo costantemente a disposizione per un compito che oggi è a portata di mano, con il Museo Internazionale Federico Fellini che ha tra i ‘padri’ nel comitato scientifico il professor Paolo Fabbri. La sua riminesità aveva radici profonde che si snodavano intorno un senso compiaciuto, orgoglioso e perfino autoironico di se stesso e del suo rapporto con la città. Diceva spesso che qui da noi lui è stato prima ‘ l’anvod ad Panoun (il nonno Ersilio)’, quindi ‘ il fratello di Gianni’. Ed era divertito quando alla cerimonia del Sigismondo d’Oro dello scorso dicembre, all’età di 80 anni, raccontava come ‘ per la prima volta mi chiamano con il mio nome e il mio cognome’. Libero, dissacrante, anarchico era lui, in sintonia perfetta con una città anch’essa libera, dissacrante, anarchica. Una relazione d’amore lunga una vita, solida e profondissima oltre gli impegni pubblici, dal già citato Comitato Scientifico per il Museo Fellini (sulla cui particolare ideazione intorno a tre assi hanno molto contribuito le intuizioni del professor Fabbri) al Comitato per i 400 anni della Biblioteca Gambalunga.
Rimini ha potuto onorare adeguatamente il professor Paolo Fabbri nello scorso dicembre consegnandoli il Sigismondo d’Oro. Dell’uomo che ha toccato i vertici culturali internazionali, avendo ogni genere di premio e merito, ho nella memoria le parole emozionate dell’annuncio del riconoscimento riminese. La sua Rimini che si trovava all’interno del teatro, in una giostra festosa e colorata, a dirgli grazie per ‘ avere, con i suoi studi e il suo lavoro incessante in Italia e nel mondo, dato valore e restituito alla parola il senso esatto delle cose, forma espressiva universale del dialogo possibile tra persone e culture diverse; per avere salvaguardato, lungo la contraddittoria evoluzione della società e del costume italiano degli ultimi cinquant'anni, ruolo e funzione del lavoro intellettuale, artefice di connessioni ai più invisibili ma essenziali per le relazioni umane; per essersi impegnato in prima persona per valorizzare personaggi, storie, iniziative anche del territorio, al di fuori da ogni provincialismo e trasformandole in occasioni di discussione e di attenzione nel più ampio panorama internazionale.’. Belle parole, sincere e meritate. Parole, comunque. Che Paolo Fabbri avrebbe interpretato per quel che erano e sono: il segno di una vita spesa a credere che andare oltre la superficie sia un dovere e una necessità per l’uomo. Come l’Ulisse di Dante. E Rimini la sua Itaca”.
Non erano parole di circostanza. Aveva gli occhi che gli brillavano in uno stupore divertito, da bambino, per quella festa così apparentemente lontana dal suo rigore, che illuminavano un corpo già provato dalla malattia.
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